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il blog di antonio d'amato

Giù le mani dal Sud | Intervista al Corriere del Mezzogiorno (28 giugno 2020)

28 giugno 2020

Bene il Governo nella trattativa sul Recovery Plan. Male, e non da oggi, le amministrazioni meridionali sull’utilizzo delle risorse strutturali. Poi un monito: non accada nuovamente quello che è successo dopo la crisi economica del 2008, superata a danno del Mezzogiorno («nel silenzio di troppi»). E due proposte: reintrodurre una fiscalità di vantaggio per il Sud, «anche per bilanciare le inefficienze che qui hanno fatto crescere al massimo le tasse locali», e «riportare al centro» programmazione, gestione e controllo per almeno l’80% dei fondi Ue.

Antonio D’Amato, che ha guidato tra l’altro Confindustria e la Federazione nazionale dei Cavalieri del lavoro, non parla spesso. E dunque, quando lo fa, è lecito attendersi che non vada ad allungare l’elenco delle banalità che contraddistingue il vocabolario di tanta classe dirigente nazionale e meridionale. Il punto di partenza è purtroppo sotto gli occhi di tutti: la pandemia che ci ha fatti piombare nella peggiore crisi economica e sociale da cento anni a questa parte o giù di lì («era dalla grande Depressione che il mondo non viveva una situazione così grave»). Il punto di arrivo è un «traguardo più che mai indispensabile da raggiungere»: «Ricostruire l’Italia a partire dal Mezzogiorno». Nel senso che proprio il Sud, o meglio l’improrogabile necessità di crescita e di rilancio di questa fetta di Penisola, può rappresentare la leva attorno alla quale rimettere in moto l’intero Paese. Tutto questo, però, secondo il presidente di Seda — gruppo leader a livello internazionale nell’industria del packaging (quartier generale ad Arzano, migliaia di addetti distribuiti in tutto il mondo e fatturato sopra i 70o milioni di euro) — non può che partire dal Recovery Plan.

Come giudica l’operato del Governo in questa delicata e difficile trattativa con l’Europa?
«Il Governo — spiega D’Amato al Corriere del Mezzogiorno — ha definito con l’Ue un dialogo su basi di solido confronto politico: non hanno sbattuto porte, né certo si sono presentati con il cappello in mano. Hanno invece fatto quello che dovevano: tessere rapporti proficui. Proprio a Napoli sono state gettate le basi per recuperare una forte intesa prima con la Francia e poi con la Germania perché i tre più grandi Paesi fondatori dell’Europa divenissero poi i protagonisti di questa nuova fase di ricostruzione. E quindi va dato il giusto merito al premier Giuseppe Conte e ai ministri Roberto Gualtieri ed Enzo Amendola. Con loro, è giusto ricordalo, hanno svolto un ruolo altrettanto importante il commissario europeo Paolo Gentiloni e il presidente del Parlamento Ue David Sassoli. Ma allo stesso modo va detto che oggi si apre una fase nuova, che necessita di strategie serie e decisive. Ottenute con il Recovery Plan le risorse, tante, occorre ridefinire la prospettiva. E questo si deve tradurre in una capacità forte di programmare, progettare e realizzare investimenti».

Per questo bisogna «ricostruire il Paese»?
«Innanzitutto dobbiamo partire da una necessaria premessa: viviamo la fase più critica da cento anni a questa parte. E parlo dell’Italia, dell’Europa e del mondo intero. In discussione c’è il modello economico globale, “aggredito” da una crisi gravissima — finanziaria, sociale e di sostenibilità ambientale — che si sta consumando in un contesto di tensioni geopolitiche come non si registrava da decenni. Si, e mi riallaccio alla sua domanda, per questo il nostro Paese deve saper affrontare le proprie difficoltà, grandi difficoltà, con energia e capacità di ricostruire il tessuto economicoproduttivo e istituzionale. Qui non è più questione di riforme, o almeno soltanto di riforme, bisogna ricostruire l’Italia. A partire dal Sud».

In che senso?
«L’Italia, e lo dico da europeista convinto, è uno dei Paesi fondatori dell’Ue, uno dei più importanti, ed è l’ora che i grandi Paesi fondatori svolgano il ruolo di leadership che a loro compete. Una partita significativa per tutti i cittadini della Penisola e per la stessa Unione. Ma, volgendo lo sguardo al Sud, bisogna evitare di commettere errori già visti».

Quali?
«Nel 2008 abbiamo vissuto una crisi molto pesante che, solo in parte, è stata superata. Eppure sono pochi, quasi nessuno, che ricorda che la stessa è stata affrontata a danno del Mezzogiorno. Le risorse del Sud sono state dirottate al Nord e il differenziale di crescita tra Settentrione e Meridione è aumentato ancora. Prima del Covid il Nord aveva recuperato e il Sud arrancava o, ben che fosse, correva male. Oggi la situazione è ancor più grave. La fotografia è rappresentata da questi numeri: il tasso occupazionale in Italia è solo del 58,4%, rispetto alla media Ue del 73,1. Ma aprendo il dato italiano, il tasso di occupazione al Nord è del 68% e quello del Sud è a 43,4. La la Grecia è al 54%, la Polonia al 66 e la Repubblica Ceca al 74. Per rimettere in moto l’Italia, quindi, bisogna partire proprio dal Sud. Che ha il potenziale di crescita più elevato e che in prospettiva può far crescere tutto il Paese. Ma per far questo il Mezzogiorno deve urgentemente recuperare competitività. Nel contesto italiano e in quello continentale».

Già, semplice a dirsi…
«Ma guardi la ricetta non è complicata e la capacità di realizzarla che preoccupa». Cosa fare, quindi? «Investimenti pubblici per recuperare il gap di infrastrutture materiali e per avviare un imponente piano di risanamento ambientale. Poi, puntare sull’education. La formazione è fondamentale e qui, peraltro, si parte da una ottima base rappresentata dalle nostre università».

E i privati?
«Bisogna attrarre investimenti privati. Capitali nazionali e stranieri. Ma ci sono troppi ritardi competitivi». La famigerata burocrazia? «Nessuno chiede di snellire le procedure per scavalcare regole e controlli. Serve la massima trasparenza e serve anche tanto rigore. Ma in tempi umani. Europei».

I competitor del Sud oggi sono in Europa?
«Sono nel mondo ma soprattutto in Europa. Il gap di competitività tra noi e gli altri Paesi Ue cresce di anno n anno mentre la produttività del fattore lavoro continua a declinare. Quando poi ci confrontiamo con i Paesi dell’Est continentale, dove oggi le imprese multinazionali che una volta investivano nel Sud continuano a emigrare, ci troviamo di fronte a un costo del lavoro pari a un terzo del nostro; a una esenzione fiscale decennale e a infrastrutture adeguate».

Come si può porre un argine e magari puntare a invertire il trend?
«Bisogna rendere di nuovo appetibile il Sud reintroducendo la fiscalizzazione degli oneri sociali e dando vantaggi fiscali a chi investe nel Mezzogiorno. E rendere nuovamente ospitale il rapporto tra amministrazioni locali e imprese. A rischio c’è la tenuta sociale e questo è un aspetto che può e deve far superare i freni posti da paesi un po’ ottusi. La logica degli aiuti di stato è nei fatti superata. Ora, tanto più dopo il Covid, contano le politiche di riequilibrio territoriale. Va sottolineato che per oltre 20 anni il Meridione è stato completamente cancellato dall’Agenda del Paese nel silenzio di tutti e va dato merito al premier di aver riportato il Sud al centro dell’azione di governo. Ora è importante dare concretezza a questo impegno».

Ma qual è il vantaggio competitivo del Mezzogiorno.
«Un punto di forza c’è. Una forza lavoro non disponibile altrove. Puntiamo su una formazione professionale più adeguata e poniamo come obiettivo 10 punti di crescita del tasso occupazionale in io anni».

Diceva che i fondi ora ci sono.
«Sì, ma bisogna cambiare passo nell’utilizzo delle risorse. Soprattutto quelle europee. La situazione al Sud e in Campania è fortemente deficitaria. Da tempo, è vero. Sull’agenda dei fondi strutturali 2014-2020 stentiamo a contabilizzare il 20% delle risorse disponibili. Parliamo di miliardi di euro che non sappiamo né progettare né investire nonostante l’enorme fame di lavoro e di sviluppo nel quale versiamo da decenni. Occorre voltare radicalmente pagina».

Che propone?
«La Spagna programma al centro e controlla la spesa al centro per l’80% delle risorse strutturali. Riportiamo al centro anche qui programmazione controllo e gestione fondi strutturali almeno per l’80% degli stessi».

Lei muove critiche anche pesanti. Ma gli imprenditori sono, o dovrebbero essere, classe dirigente… «Vero, in questi 12 anni di abbandono del Sud non ho sentito levarsi troppe voci. Le colpe sono anche tra noi, certo. Questo è il momento in cui i ceti dirigenti del Paese devono rimboccarsi le maniche nella ricostruzione del Paese in uno sforzo autenticamente bipartisan».

A proposito di imprenditori, a Napoli…
«La fermo subito. Di Confindustria non parlo».

 

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